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TORINO - VALDOCCO

 

A Valdocco don Bosco portò il suo Oratorio nel 1846, fondò i Salesiani, e maturò la sua santità fino al giorno della morte, 31 gennaio 1888. Il suo messaggio è di povertà, di fiducia in Dio e in Maria, di sfida a ogni sorta di difficoltà, di amore ai giovani spinto fino alla temerarietà per salvarli. 

 

NEL CORTILE A FIANCO DELLA BASILICA DI MARIA AUSILIATRICE 

 

La casa Pinardi in un affresco del pittore Crida. Diventerà il centro di tutta l'opera salesiana nel mondo. 

La seconda domenica di Quaresima, 15 marzo 1846, don Bosco con i 300 ragazzi del suo Oratorio

 era stato licenziato dai fratelli Filippi. Si trovava nel loro prato (laggiù a sud-est, a 300 metri di qui). 
Guardava i suoi ragazzi, e non sapeva dove dare loro l'appuntamento per la domenica seguente: tutti l'avevano cacciato via. «In sulla sera di quel giorno — scrisse — rimirai la moltitudine dei ragazzi che giocavano. Ero solo, sfinito di forze, la salute malandata. Ritiratomi in disparte, mi posi a passeggiare da solo e non riuscii a trattenere le lacrime: "Mio Dio — esclamai —, ditemi quello che devo fare". In quel momento arrivò non un arcangelo, ma un ometto balbuziente, Pancrazio Soave. Gli domandò: «È vero che lei cerca un luogo per fare un laboratorio?». «No. Io voglio fare un "oratorio"». «Non so che differenza ci sia, ad ogni modo il posto c'è. E del signor Pinardi, venga a vederlo». 
Don Bosco percorse in diagonale questi trecento metri (da sud-est a nord-ovest, percorrendo la via che allora si chiamava «Via della Giardiniera») e si trovò davanti una casupola con pian terreno e primo piano. Pinardi gli indicò una tettoia-baracca dietro la casa. Eccola là, ancora oggi rannicchiata in fondo agli edifici: oscuro, piccolo ceppo da cui si è sviluppata tutta l'opera di don Bosco. Adesso c'è scritto «Cappella Pinardi», ma allora era solo uno stanzone che serviva alle lavandaie della città come deposito dei cumuli di biancheria da lavare, che poi stendevano sui prati, come grandi festoni bianchi. 

 

CAPPELLA PINARDI 

 

L'interno della cappella Pinardi. È dedicata al Cristo risorto in ricordo del giorno di Pasqua 1846

 in cui don Bosco e i suoi ragazzi vi entrarono per la prima volta. 

Il signor Pinardi fece entrare don Bosco sotto la tettoia per una porta posteriore (chiusa adesso dalla grande lapide di fondo). Disse: «È ciò che ci va per il suo laboratorio». E don Bosco: «Ma io voglio ,fare un oratorio, cioè una piccola chiesa dove portare a pregare i miei ragazzi». Intanto si guardava in giro: era solo una povera tettoia, bassa, appoggiata al lato nord della casa Pinardi. Un muretto tutto intorno la trasformava in una specie di baracca o stanzone. Misurava m. 15 per 6. Don Bosco disse: «Troppo bassa, non mi serve». Ma Pinardi: «Farò abbassare il pavimento di mezzo metro, farò il pavimento di legno, metterò porte e finestre. Ci tengo ad avere una chiesa». Don Bosco pagò 300 lire per un anno: per lo stanzone-tettoia e la striscia di terra intorno dove far giocare i suoi ragazzi. Tornò di corsa ai suoi ragazzi e gridò: «Allegri! Abbiamo trovato l'oratorio! A Pasqua ci andremo: è là, in casa del signor Pinardi!». Il 12 aprile era domenica di Pasqua. Tutte le campane della città squillarono a festa. Alla tettoia non c'era nessuna campana, ma c'era il cuore di don Bosco che chiamava tutti quei ragazzi, che arrivarono a centinaia.

La Madonna della Consolata, la prima statua che don Bosco pose nella cappella. 

Entrando nella cappella, vediamo sulla destra la statua di Maria Consolatrice. È la prima statua che don Bosco comperò per la sua prima chiesa. Non è di legno né di metallo: non aveva i soldi. È di cartapesta. Gli costò 27 lire (la paga di un operaio meccanico in quel tempo era di due lire al giorno). Nelle feste, i ragazzi portavano quella statua in processione «nei dintorni». I dintorni erano vastissimi prati e campi, pochissime casupole, e due osterie dove gli operai della periferia si ubriacavano regolarmente nel pomeriggio di ogni domenica. Questo fatto disturbava, specialmente d'estate quando bisognava tenere aperte le finestre della chiesetta. Durante la predica si sentivano i canti e gli urli degli ubriachi. A volte risse furibonde coprivano la voce del predicatore. Qualche volta don Bosco perdeva la pazienza, scendeva dal pulpito, si toglieva cotta e stola e correva all'osteria a pestare pugni sul tavolo e a gridare che adesso chiamava i carabinieri. Otteneva un silenzio sbigottito. 

 

AVVENIMENTI NELLA CAPPELLA PINARDI 

 

Il portico sul cui sfondo è la cappella Pinardi. 

 

Intorno e dentro questa cappella sono capitate tante cose che noi Salesiani 

consideriamo il «tesoro» della nostra memoria.

 

1846. Appoggiato al muro della cappella, mentre insegnava a un ragazzo a fare le operazioni di aritmetica, la prima domenica di luglio don Bosco si sentì male: febbre alta, capogiri. Dovettero accompagnarlo fino alla stanza che la Marchesa di Barolo gli imprestava in via Cottolengo. Si capì subito che era cosa grave: un minimo sforzo gli provocava sbocchi di sangue. I polmoni erano colpiti in maniera gravissima, e presto fu in punto di morte. 
Si diffuse rapida tra i giovani la notizia tristissima: «Don Bosco muore». Alla cameretta dove don Bosco agonizzava arrivavano gruppi di ragazzi spauriti. Avevano ancora gli abiti imbrattati dal lavoro, la faccia bianca di calce. Piangevano, pregavano. Otto giorni don Bosco rimase tra la vita e la morte. Ci furono ragazzi che in quegli otto giorni, sotto il sole rovente, non bevvero acqua, per ottenere dal Cielo la grazia. Nel Santuario della Consolata, non lontano, i piccoli muratori si diedero il turno giorno e notte. C'era sempre qualcuno inginocchiato davanti alla Madonna, anche se gli occhi si chiudevano per il gran sonno. Stavano lì perché don Bosco non doveva morire.

 

Mamma Margherita arriva con don Bosco a Valdocco. 

 

E la «grazia» venne, come dono della Madonna. La domenica di fine luglio, appoggiandosi ad un bastone per la grande debolezza (aveva 31 anni!) don Bosco fece il tratto di strada che lo separava dal suo oratorio. I ragazzi gli corsero incontro, lo costrinsero a sedersi sopra un seggiolone, e lo portarono in trionfo fino alla cappella. Cantavano e piangevano, i piccoli amici di don Bosco, e piangeva anche lui. Nel silenzio della cappella, dopo aver ringraziato il Signore, don Bosco disse: «La mia vita la devo a voi. Ma siatene certi: d'ora innanzi la spenderò tutta per voi». Andò in convalescenza ai Becchi per alcuni mesi. 

Tornò il 3 novembre, non più solo, ma accompagnato da mamma Margherita: si sistemarono nelle tre stanze al primo piano, che in quei mesi don Borel aveva affittato per loro.

 

La finestra da cui un attentatore sparò a don Bosco.

 

1848. Accadono le vicende frenetiche del Risorgimento e della prima guerra d'Indipendenza. I preti sono visti come «i nemici della patria». Mentre don Bosco fa catechismo in cappella, dalla prima finestra a sinistra (guardando l'altare) spunta un vecchio fucile che gli spara. La pallottola straccia la veste di don Bosco sul fianco e si ficca nel muro. Don Bosco è spaventato, ma lo sono di più i suoi ragazzi, ed egli ha subito una battuta allegra per tirarli su di morale: «La Madonna ci vuoi bene, e quello è un pessimo tiratore. Mi dispiace solo per la veste, che è l'unica che ho». 

 

1849. Nel giorno dei morti, don Bosco propose ai suoi giovani di visitare il cimitero. Solo dopo che ebbe promesso a tutti «abbondanti castagne cotte», strappò un sì. Ne aveva comperato tre sacchi, e tramite Giuseppe Bozzetti (diciottenne) disse a mamma Margherita di farle cuocere per la sera. Margherita non aveva inteso bene, e ne cosse un paio di chili in una pentola. All'arrivo dei 300 affamati, Bozzetti 
porse la pentola dicendo a don Bosco: «Ci sono solo queste!». Nel trambusto di 300 giovani che urlavano e spingevano, don Bosco non capì bene (forse) e cominciò a distribuirne un grosso mestolo a ogni giovane. Giuseppe gridava: »Non così, non così, non bastano!». Don Bosco meravigliato gli faceva cenno: «Tre sacchi ce ne sono, tre sacchi!». E Giuseppe: «No! Quelle lì, solo quelle lì!». 
Don Bosco continuò a distribuirne un mestolo colmo a ciascuno. Ma i ragazzi non erano tonti: vedevano benissimo che da quella pentola troppo piccola le castagne che uscivano erano un'esagerazione. Cominciarono a fissare la pentola, don Bosco, il mestolo. Si fece quasi silenzio tutto intorno. E mentre lui continuava sereno a distribuire, quei giovani si domandarono per la prima volta: «Ma chi è don Bosco? Un mago? Un santo?» (MB 3,576s). 

 

Uscendo dalla Cappella Pinardi, si sfiora con il braccio destro la minuscola sacrestia. È il locale strettissimo in cui, nel 1853, don Bosco collocò il primo laboratorio dei calzolai: due deschetti e quattro seggioline. Non ci stava di più (don Bosco non aspettò mai di avere i «locali adatti» per cominciare qualcosa: starebbe ancora aspettando adesso!). Don Bosco si sedette al deschetto e martellò una suola davanti a quattro ragazzini. Poi disse: «Adesso provate voi».

 

CHIESA DI SAN FRANCESCO DI SALES

 

chiesa di S. Francesco di Sales - campanile

 

La cappella Pinardi, in sei anni di onorato servizio,era diventata sempre più piccola per i tanti ragazzi che venivano all'Oratorio. La posa della prima pietra di una nuova chiesa dedicata a S. Francesco di Sales fu fatta il 20 luglio 1851. Fu consacrata il 20 giugno 1852, e per 16 anni (fino al 1868) rimase il cuore della Congregazione che nasceva. Dal 1852 al 1856 venne negli ultimi banchi, a pregare sgranando il suo Rosario, la vecchia e stanca mamma Margherita. 

 

Interno della Chiesa di San Francesco di Sales

 

Nel 1854 ci fu in Torino il grande colera che uccise più di tremila persone. Un ragazzo, che non aveva più nulla con cui coprire i suoi malati, chiese qualcosa alla mamma, e Margherita lo portò in questa chiesa e gli diede la tovaglia dell'altare: «Portala al tuo malato. Non credo che il Signore si lamenterà». L'8 dicembre 1854, Domenico Savio entrò in questa chiesa, si inginocchiò davanti all'altare dell'Immacolata e si consacrò a lei con questa brevissima preghiera (che per tanto tempo i ragazzi salesiani impararono a memoria e fecero propria): «Maria, vi dono il mio cuore, fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei, ma per pietà, fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere anche un solo peccato».

 

  

altare della Madonna, presso cui Domenico Savio si consacrò a lei,

 e il quadro che ricorda la fondazione della Compagnia dell'Immacolata, 18 dicembre 1854. 

 

Due anni dopo, Domenico Savio tornò a inginocchiarsi a questo altare, non più solo, ma in compagnia dei migliori ragazzi dell'Oratorio. Aveva fondato la «Compagnia dell'Immacolata». Si era chiesto: «Perché dobbiamo cercare di fare del bene agli altri da soli? Perché non unirsi, tutti i giovani più volenterosi, in una "società segreta", per diventare un gruppo di piccoli apostoli tra gli altri?». Don Bosco approvò il progetto. Domenico non sapeva che gli restavano soltanto più 9 mesi da vivere, ma aveva creato il suo capolavoro: quei «primi fondatori» sarebbero diventati salesiani (eccetto lui che sarebbe volato in Cielo); la Compagnia si sarebbe trapiantata in ogni Casa salesiana per più di 100 anni (fino al 1967), diventando dovunque un gruppo di ragazzi impegnati e di sicure vocazioni salesiane. 

 

    

In questa chiesa ha visto don Rua celebrare la sua prima Messa. (sinistra)

Qui Domenico Savio ebbe un'estasi che durò più di sei ore. (destra)

 

Michele Rua in questa chiesa disse la sua prima Messa nel 1860. In questa stessa chiesa, dietro l'altare maggiore, Domenico Savio ebbe un'estasi davanti al tabernacolo che durò più di sei ore. 

 

 Un quadro ricorda i tre ragazzi di cui don Bosco scrisse la vita: 

Domenico Savio, Francesco Besucco e Michele Magone. 

 

1860. Il 22 ottobre di quest'anno, sulla prima porta a sinistra di questa chiesa, avvenne un fatto straordinario. Francesco Dalmazzo era arrivato a Valdocco a 15 anni. Aveva grande volontà, ma salute debole. Disse a don Bosco: «Io le voglio bene, ma se continuo a stare qui mi ammalerò. Se permette, scrivo a mia mamma di venire a riprendermi». Così fece. Ma la mattina in cui doveva partire, volle ancora confessarsi da don Bosco, Mentre attendeva per le confessioni dietro l'altare, mentre si confessava e durante il ringraziamento alla confessione, vide tornare tre volte i garzoni del pane che dissero a don Bosco che pane per la colazione non ce n'era più. Don Bosco prima li mandò dal panettiere, Magra; saputo poi che il panettiere non voleva più dare a credito, disse di raccogliere tutto il pane che c'era all'Oratorio, che sarebbe venuto a distribuirlo lui stesso alla porta. Francesco capì che forse stava per capitare qualcosa di straordinario. Uscendo per primo, fece cenno a sua madre che l'aspettava con la valigia di avere pazienza ancora un po'. Quando arrivò don Bosco — è testimonianza giurata — presi una pagnotta per primo, guardai nel cesto e vidi che conteneva una quindicina o una ventina di pagnottelle. Quindi mi collocai inossevato proprio dietro don Bosco, sopra il gradino, con tanto di occhi aperti. Don Bosco iniziò la distribuzione. I giovani gli sfilavano davanti, contenti di ricevere il pane da lui, e gli baciavano la mano, mentre egli a ciascuno diceva una parola, dava un sorriso. Tutti gli alunni, circa 400, ricevettero il loro pane. Finita la distribuzione, volli riesaminare la cesta del pane: nel canestro c'era la stessa quantità di pagnotte che c'era prima. Restai sbalordito. Corsi difilato da mia mamma e le dissi: "Non vengo più a casa. Qui si mangia poco, ma don Bosco è un santo". Questa fu la sola causa che mi indusse a restare all'Oratorio e a farmi salesiano» (MB 6,777). Francesco Dalmazzo divenne prete, fu per Otto anni direttore a Valsalice, e fu il primo Procuratore generale della Congregazione Salesiana presso la Santa Sede.

 

 

CORTILE 

 

 

I ricordi legati a questi pochi metri quadrati sono moltissimi. Ne ricordiamo alcuni. 

 

 

La FONTANA

 

 È dei tempi di don Bosco, che scrisse: «Butta acqua abbondante, freschissima e salubre». Ora butta quella dell'acquedotto torinese. Qui i ragazzi venivano a «bagnare la pagnotta» della colazione e della merenda: l'acqua era il solo companatico. 

 

La fontana del cortile

 

Quando don Giuseppe Vespignani, già prete, entrò per diventare salesiano, andò incontro ad un piccolo fallimento: messo a far catechismo a una classe (che aveva, come d'ordinario, 70 alunni) fu a poco a poco sommerso dal brusio generale. Lui parlava con voce debole, e i ragazzi parlavano più forte di lui. Sconsolato, si confidò con don Bosco, che gli disse: «All'ora di merenda, domani, vada vicino alla :fontana. Verranno i ragazzi a bagnare la pagnotta. Parli con loro: dica chi è, domandi chi sono.......

 

 

SCALA DEL GRIGIO 

 

La scala del "grigio"

 

Sotto il portico, alla sinistra di chi lo percorre da ovest a est, c'è una scala che ai tempi di don Bosco portava alla cucina di mamma Margherita. Sul primo gradino, una sera dell'inverno 1854, si sdraiò un cane misterioso, che don Bosco chiamava « gris». L'aveva visto qualche mese prima venirgli incontro festoso mentre attraversava il terreno boschivo che separava Valdocco da Torino. Era chiara l'intenzione dell'animale di volerlo difendere. Riapparve in quello stesso punto in novembre, quando due malandrini gettarono un mantello sulla testa di don Bosco e cominciarono a malmenarlo. Don Bosco gridò, il cane saltò fuori da un cespuglio e balzò alla gola dei malviventi. Fu don Bosco a dover difendere i malcapitati dal cane, che poi lo accompagnò fino a casa. Il «grigio» si fece vedere anche alcune volte a valdocco, fino a coricarsi una sera sull'ultimo gradino, impedendo con minacciosi brontolamenti che don Bosco lo varcasse per uscire. Mamma Margherita, che già aveva cercato di persuadere suo figlio a non uscire così tardi perché qualcuno poteva fargli del male, gli disse: «Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane; non uscire». 

 

Il pensiero di scoprire la provenienza di quel cane venne più volte a don Bosco, ma non riuscì a trovare niente. Alla baronessa Fassati che nel 1872 gli domandò cosa ne pensasse, rispose: «Dire che sia un angelo, farebbe ridere. Ma neppure si può dire un cane ordinario». 

 

 

ABBAINI

 

La sfilata degli abbaini, gelidi d'inverno, torridi d'estate, 

dove studiavano e dormivano i primi giovanissimi salesiani. 

 

Sul tetto si affacciano ancor oggi gli «abbaini» dove dormivano i primi, giovanissimi salesiani. Erano stanzini gelidi d'inverno e roventi d'estate. Cagliero (che vi abitava insieme a Francesia e Rua) ricordava che d'inverno, per lavarsi, aprivano il finestrotto, raccoglievano la neve con le mani, e si strofinavano energicamente il viso. Poi, ravvolti in una verde coperta militare, studiavano.

 

 

L'ORTO DI MAMMA MARGHERITA

 

il posto dove c'era l'orto di mamma Margherita,

 distrutto in una «battaglia» di ragazzi.

 

Dove ora c'è il monumentino a don Rua, mamma Margherita aveva trasformato un rettangolo di prato in orto. Vi aveva piantato lattughe e pomodori, per arricchire la poverissima mensa dei ragazzi. Difendeva quel suo orto anche con il bastone.

 

Ma nel 1848 l'aria era accesa di guerra, e anche i ragazzi dell'oratorio giocavano alla guerra. Nel pomeriggio di una domenica, durante una finta battaglia a cui assisteva anche la popolazione attirata dal suono di una tromba militare, avvenne il disastro: durante una ritirata troppo veloce, gli sconfitti invasero l'orto di Margherita e lo pestarono tutto. La mamma ne fu desolata. A notte, mentre i ragazzi erano andati a dormire, e lei rattoppava le calze «dei soldati» con accanto don Bosco che aggiustava le scarpe sfondate degli stessi «soldati», a un tratto Margherita disse: «Sono stanca. Lasciami tornare ai Becchi. Sono una povera vecchia, lavoro dal mattino alla sera, e questi ragazzacci mi rovinano sempre tutto. Non ne posso più». Don Bosco non contò una barzelletta per «tirarla su». Le indicò il Crocifisso alla parete. E quella vecchia contadina (che aveva educato suo figlio a guardare il Crocifisso nei momenti pesanti capì. Riabbassò la testa sulle calze con i buchi e continuò a cucire. Non domandò mai più di tornare a casa. Alzerà solo qualche volta di più gli occhi al Crocifisso, per prenderne forza, povera vecchia stanca (MB 4,233). 

 

 

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